Nell’approccio «best-in-class», la performance ambientale, sociale e di governance (ESG) di una società o di un emittente viene confrontata con la performance ESG dei suoi pari (operatori dello stesso settore o categoria) sulla base di un rating di sostenibilità, quest’ultimo solitamente elaborato da agenzie di rating specializzate in ambito ESG. Unicamente le società o gli emittenti con un rating superiore a una soglia predefinita sono quindi considerati «investibili». La soglia può essere fissata a diversi livelli dando così ancora un discreto margine di manovra al gestore del suddetto portafoglio. Secondo l’ultimo studio di mercato di Swiss Sustainable Finance sugli investimenti sostenibili in Svizzera, all’incirca due operatori finanziari su tre che applicano il best-in-class approach per la creazione dei propri fondi d’investimento tendono a ridurre il proprio universo investibile di almeno il 50%. Concretamente questo significa, ad esempio, che se il mio universo investibile di partenza è dato dallo Standard & Poor 500, un indice azionario che segue l’andamento di un paniere azionario formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione, a seguito dello screening positivo l’elenco di titoli in cui poter investire si sarà ridotto a 250 o anche meno. Ciò vuol dire, che nel comparto del settore automobilistico invece di disporre ad esempio di dieci società in cui poter investire, ne avremo a disposizione solo cinque, ossia le cinque migliori dal punto di vista sociale, ambientale e di governance. Lo stesso per il comparto finanziario o per gli investimenti nel settore farmaceutico e a seguire per tutti gli altri settori disponibili.
A differenza di quanto si potrebbe immaginare, questa limitazione ha spesso anche un effetto positivo in termini di redditività per l’investitore con un orizzonte temporale di medio-lungo termine. Analisi empiriche hanno dimostrato, infatti, che questi portafogli tendono ad avere un rapporto rischio-rendimento migliore rispetto a portafogli non soggetti ad alcuna limitazione. La spiegazione sta nel fatto che in ogni comparto i titoli disponibili sono tra i «best performer» in termini ESG e quindi sono spesso anche società all’avanguardia da diversi punti di vista, tra cui l’innovazione tecnologica, oppure società meno a rischio per quanto riguarda controversie di tipo ambientale o sociale, controversie che poi spesso hanno un effetto negativo sulla reputazione e sul valore dell’azienda stessa in borsa. Importante è però sempre confrontare aziende della stessa categoria, perché una valutazione ESG di 70 punti su 100 può essere un ottimo risultato in un settore, ma magari pessimo in un altro. Non si possono, insomma, confrontare mele con pere, rispettivamente non possiamo confrontare il rating ESG della Nestlé con quello di Novartis o Zurigo Assicurazioni o ABB. Ogni settore ha le sue caratteristiche e anche sfide a livello sociale e ambientale che possono divergere fortemente tra loro.
Resta da fare un’ultima considerazione, piuttosto importante. Molto spesso l’approccio «best-in-class» viene combinato con altri approcci nella costituzione di portafogli finanziari sostenibili, ad esempio applicando, con il «negative screening», un ulteriore filtro relativo all’esclusione di determinati settori economici e/o in virtù di normative internazionali a tutela dell’ambiente o della società. Mediante questo doppio «screening» è quindi possibile realizzare delle strategie d’investimento che possiamo considerare piuttosto attendibili in ottica ESG, tuttavia ogni singolo fondo o altro prodotto finanziario va poi sempre ancora analizzato in dettaglio per riuscire a comprenderne il reale livello di sostenibilità. Alla fine è poi sempre il cliente che, adeguatamente supportato dal proprio consulente finanziario, può scegliere un prodotto finanziario più o meno sostenibile, l’offerta sul mercato è oramai molto ampia.
Lascia un commento